Cima delle nobildonne - Mondadori
Cima delle nobildonne - Mondadori
Esaurito
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EDITORE: Mondadori
- AUTORE: Stefano D’Arrigo
- ANNO DI PUBBLICAZIONE: 1985
- COLLANA: Scrittori italiani e stranieri
1^ edizione.
Pagine 202 - copertina rigida con sovraccoperta (con lievi segni d’uso).
Libro in buone condizioni.
Dal risvolto di copertina:
Un altro D’Arrigo o lo stesso D’Arrigo di Horcynus Orca? Lo scrittore ha qui abbandonato gli scenari omerici e marini, le fere abissali e mortifere, per accompagnarci nei reparti di ginecologia di modernissimi ospedali europei; e non solo; ma ha anche accantonato l’incontenibile inventività linguistica di allora per dare vita a un linguaggio trasparente se pure intenso, quasi di cronaca o referto se pure innervato nel profondo da grandiose correnti simboliche.
Cima delle nobildonne è tuttavia un romanzo altrettanto epico che Horcynus. Se l’epica di quello, nel verso solare e nel rovescio notturno, risaliva ai mostri, ai fantasmi, ai sogni, alle memorie ancestrali che popolano l’universo dell’uomo (creatura tanto più moderna quanto più primigenia), l’epica di questo libro è misteriosa e disperatamente sigillata nel segreto dell’esistenza. L’eroe mitologico di questa epica è la placenta, la premadre, veicolo di vita tra la madre e l’essere nato nel suo grembo, e subito morta, gettata via, non appena quella funzione è esaurita.
Come Horcynus, anche questo è romanzo di vita e di morte. Ed è difficile pensare oggi a uno scrittore che abbia la potenza fantastica di porsi a fronte a una sintesi così drammaticamente universale. Come patria del suo nuovo eroe mitologico D’Arrigo ha scelto l’Egitto di 5000
anni fa, dove in una tavoletta trionfale in onore del Faraone Narmer, accanto alle insegne della dinastia (falco, falchessa e volpe) è raffigurata una placenta; e nell’Egitto del secondo millennio a.C. ove regnò la Faraone donna Hatshepsut, detta Cima delle nobildonne.
Con vertiginosa simbiosi, questo scenario millenario rivive nelle aule universitarie e nelle sale di ospedali d’avanguardia, nel progetto di un grande museo delle placente e nell’intervento di chirurgia plastica con cui si costruisce la neo-vagina della bellissima adolescente asessuata amata dall’Emiro di Kuneor (pagine, queste ultime, di eccezionale bravura; Joyce stesso le avrebbe applaudite).
Poi, nel terzo tempo del racconto, misteriosamente si passa ad Irina, degente anche lei in una clinica, e alla cagnetta Margot, entrambe fedeli di una placenta conservata nella formalina, sancta sanctorum della vita che si trasmette e si rinnova. La cagnetta muore sotto un’auto; quasi a significare l’eterno incombere della morte nel cuore della vita, il quale batte con ritmo inesplicabile e tremendo tra vita e morte.
Un D’Arrigo altro e medesimo, dunque; e forse ancor più sottilmente orgoglioso del proprio coraggio. Ed è da dire che, per gli scrittori del suo rango, il coraggio paga.
Geno Pampaloni
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