Il sogno di una cosa - di Pier Paolo Pasolini
Il sogno di una cosa - di Pier Paolo Pasolini
Esaurito
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EDITORE: Garzanti
- AUTORE: Pier Paolo Pasolini
- ANNO DI PUBBLICAZIONE: 1970
- COLLANA: Letture per le Scuole Medie
Introduzione di Attilio Bertolucci.
Pagine 200 - copertina morbida.
Libro in buone condizioni con pagine un po’ scurite in particolare verso i bordi.
Il romanzo, che viene qui presentato con alcune lievi aggiustature, non tali da modificarne la struttura, è, come s’è detto, la prima prova di Pasolini narratore. Formatosi, precocemente, in un clima letterario portato a dare preminenza assoluta e importanza quasi esclusiva alla poesia, Pasolini, vissute con intensa partecipazione la resistenza e le lotte sociali dell’immediato dopoguerra, scopre nelle cose e in sé, la necessità di tradurre quella partecipazione nel mezzo più diretto e più naturale, il romanzo.
Il sogno di una cosa, il cui primo, puntuale titolo è I giorni del lodo De Gasperi, i giorni cioè che il Presidente De Gasperi emise, da arbitro tra padroni e contadini, un nuovo, più giusto regolamento tra le due parti in contrasto, risulta, letto oggi, un po’ un romanzo storico.
Il sogno di una cosa non ha un protagonista, se mai ne ha tre, e anch’essi dati con una discrezione grandissima, appena distinti dagli altri perché lo scrittore ha deciso di seguirli con più attenzione, senza per questo volerne fare degli eroi. Poteva toccare, invece che al Nini a Eligio a Milio, con i loro bei cognomi friulani, Infant, Bortolus e Pereisson, ad altri giovanotti di Ligugnana, Rosa e San Giovanni, o di paesi diversi della dolce, povera terra che il Tagliamento bagna e spartisce.
Si trovano una sera di festa a Casale, che ancora non si conoscono (si danno ancora del lei), e compiono con prudenza, o meglio con pudore, i primi passi d’avvicinamento che li porteranno presto, però, a un’amicizia profonda e disinteressata. Sono dei disoccupati, o dei sottoccupati, come ce ne sono tanti in quell’Italia postbellica intenta al primo tempo della ricostruzione, necessariamente lento, snervante. E poiché si trovano a vivere ai confini di una nazione dove sembra essersi realizzato il sogno di giustizia sociale che essi, di fede comunista (« più subita che cercata, come qualcosa di inerente alla loro stessa esistenza biologica, squallida e derelitta... »), nutrono nel cuore, decidono di emigrarvi. E nell’unica maniera che gli è concessa, cioè clandestinamente. Vengono delusi e con fatica e pena, come erano usciti, rientrano. Uno di essi ci riprova, con maggior fortuna dal punto di vista economico, ma con altrettante delusioni dal punto di vista umano individuale, emigrando in Svizzera.
Li ritroviamo, con i loro problemi irrisolti, ma con l’insostituibile vantaggio di esistere nell’unico luogo in cui esistere gli sia possibile: il Friuli nativo. E qui un’occasione storica, il cosiddetto « lodo De Gasperi» dà modo, ad essi come alla maggior parte della gente contadina, di affermare con decisione e coraggio, ma senza violenza, i loro diritti di cittadini e, prima, di uomini. Non è che, anche questa volta, essi risolvano molto, ma, come già era avvenuto durante la resistenza, si sono trovati ad agire con dignità, nella sola maniera che pare giusta alla loro coscienza.
Il tempo passa, soltanto due anni, il 1948 e il 1949, e dei tre giovani friulani che abbiamo conosciuto, nel primo, timido, patetico ardore di vita, ballerini emigranti clandestini scioperanti, uno s’è sistemato in maniera relativamente buona, uno è morto, l’altro s’è adattato al destino, che gli era segnato sin dalla nascita, di contadino gramo, su poca, grama terra.
Il libro, che s’era aperto con una sagra, chiude con un funerale. Senza solennità, ma con profondo
impegno morale e caldo affetto per la realtà, assolve al suo assunto religioso di imitazione della vita nello stesso modo in cui vi assolvevano le predelle dei pittori medioevali. Di esse ha insieme la semplicità nel taglio delle figure, che non devono uscire con eccessivo rilievo dal lineare svolgersi delle sequenze narrative cui appartengono, e il fulgore cromatico nella resa delle cose, così che anche i muri scrostati delle case povere, il metallo rugginoso delle biciclette, la tela spiegazzata delle bandiere, prendono lo smalto favoloso della poesia.
Pur scritto a caldo nel ’49 (parlando del ’49 e del ’48) dall’autore ancora dimorante in loco, nella Casarsa che è un po’ il centro geografico della storia, Il sogno di una cosa ha la prospettiva lontana, se pure nitida, del rimpianto. Pasolini rimpiange la realtà che ancora possiede perché sa, nel profondo, che sta per perderla.
Attilio Bertolucci
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